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O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
***** la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia dè duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
Udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? Le guazze
cadono, o piove?
E per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? Ed il metato fuma,
o già picchiate? Aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite nè frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? Desta lei la sveglia mattutina
più, dè fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
Un murmure, un rombo...
Son solo: ** la testa
confusa di tetri
pensieri. Mi desta
quel murmure ai vetri.
Che brontoli, o bombo?
Che nuove mi porti?
E cadono l'ore
giù giù, con un lento
gocciare. Nel cuore
lontane risento
parole di morti...
Che brontoli, o bombo?
Che avviene nel mondo?
Silenzio infinito.
Ma insiste profondo,
solingo smarrito,
quel lugubre rombo.
Val Volar Jul 26
Sento il respiro denso,
Avido cerca aria.

Sento i Pensieri
Frenetici e convulsi,
Eccitare il mio ansito

Sento la mente fluttuare,
Dispoticamente velocizza
I miei fragili pensieri,
Quali come delicato vetro,
Cadono,
Frantumandosi,

Sento la luce
cercare spazio tra l’oscurità,
Raccoglie con ponderazione,
I cocci frantumati
del mio essere.

Sento il mio io egemone,
Concedermi la forza,
Frantumare con calma,
la mia malattia,
Riattare la mia essenza,
di essere Umana.
Navigating through a dark period, during a rehabilitation process, in search of light
Dove sull'acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d'uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ** portato il tuo nome
un po' più in là dell'odio e dell'invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d'aquila.
E ora nell'aquila dei tuoi novant'anni
** voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d'Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo - difficile affinità
di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
"Baciamu li mani". Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
O cipresso, che solo e nero stacchi
dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
irto di cardi e stridulo di biacchi:

in te sovente, al tempo delle more,
odono i bimbi un pispillìo secreto,
come d'un nido che ti sogni in cuore.

L'ultima cova. Tu canti sommesso
mentre s'allunga l'ombra taciturna
nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
ella ricerchi tra què bronchi un'urna.

Più brevi i giorni,
e l'ombra ogni dì meno
s'indugia e cerca, irrequieta, al sole;
e il sole è freddo e pallido il sereno.

L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra:
nell'ombra ove le stelle errano sole.
E il rovo arrossa e con le spine ingombra

tutti i sentieri, e cadono già roggie
le foglie intorno (indifferente oscilla
l'ermo cipresso), e già le prime pioggie
fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.

E il tuo nido? Il tuo nido?... Ulula forte
il vento e t'urta e ti percuote a lungo:
tu sorgi, e resti; simile alla Morte.

E il tuo cuore? Il tuo cuore?... Orrida trebbia
l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,
di nebbia nera tra la grigia nebbia.

E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
la neve, muta a guisa del pensiero,
cade. Tra il bianco e tacito franare
tu stai, gigante immobilmente nero.
La cosa più superba è la Notte,
quando cadono gli ultimi spaventi
e l'anima si getta all'avventura.
Lui tace nel tuo grembo
come riassorbito dal sangue,
che finalmente si colora di Dio
e tu preghi che taccia per sempre,
per non sentirlo come rigoglio fisso
fin dentro le pareti.
O cipresso, che solo e nero stacchi
dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
irto di cardi e stridulo di biacchi:

in te sovente, al tempo delle more,
odono i bimbi un pispillìo secreto,
come d'un nido che ti sogni in cuore.

L'ultima cova. Tu canti sommesso
mentre s'allunga l'ombra taciturna
nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
ella ricerchi tra què bronchi un'urna.

Più brevi i giorni,
e l'ombra ogni dì meno
s'indugia e cerca, irrequieta, al sole;
e il sole è freddo e pallido il sereno.

L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra:
nell'ombra ove le stelle errano sole.
E il rovo arrossa e con le spine ingombra

tutti i sentieri, e cadono già roggie
le foglie intorno (indifferente oscilla
l'ermo cipresso), e già le prime pioggie
fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.

E il tuo nido? Il tuo nido?... Ulula forte
il vento e t'urta e ti percuote a lungo:
tu sorgi, e resti; simile alla Morte.

E il tuo cuore? Il tuo cuore?... Orrida trebbia
l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,
di nebbia nera tra la grigia nebbia.

E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
la neve, muta a guisa del pensiero,
cade. Tra il bianco e tacito franare
tu stai, gigante immobilmente nero.
O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
***** la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia dè duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
Udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? Le guazze
cadono, o piove?
E per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? Ed il metato fuma,
o già picchiate? Aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite nè frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? Desta lei la sveglia mattutina
più, dè fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
O cipresso, che solo e nero stacchi
dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
irto di cardi e stridulo di biacchi:

in te sovente, al tempo delle more,
odono i bimbi un pispillìo secreto,
come d'un nido che ti sogni in cuore.

L'ultima cova. Tu canti sommesso
mentre s'allunga l'ombra taciturna
nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
ella ricerchi tra què bronchi un'urna.

Più brevi i giorni,
e l'ombra ogni dì meno
s'indugia e cerca, irrequieta, al sole;
e il sole è freddo e pallido il sereno.

L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra:
nell'ombra ove le stelle errano sole.
E il rovo arrossa e con le spine ingombra

tutti i sentieri, e cadono già roggie
le foglie intorno (indifferente oscilla
l'ermo cipresso), e già le prime pioggie
fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.

E il tuo nido? Il tuo nido?... Ulula forte
il vento e t'urta e ti percuote a lungo:
tu sorgi, e resti; simile alla Morte.

E il tuo cuore? Il tuo cuore?... Orrida trebbia
l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,
di nebbia nera tra la grigia nebbia.

E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
la neve, muta a guisa del pensiero,
cade. Tra il bianco e tacito franare
tu stai, gigante immobilmente nero.
O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
***** la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia dè duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
Udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? Le guazze
cadono, o piove?
E per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? Ed il metato fuma,
o già picchiate? Aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite nè frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? Desta lei la sveglia mattutina
più, dè fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
La cosa più superba è la Notte,
quando cadono gli ultimi spaventi
e l'anima si getta all'avventura.
Lui tace nel tuo grembo
come riassorbito dal sangue,
che finalmente si colora di Dio
e tu preghi che taccia per sempre,
per non sentirlo come rigoglio fisso
fin dentro le pareti.
Un murmure, un rombo...
Son solo: ** la testa
confusa di tetri
pensieri. Mi desta
quel murmure ai vetri.
Che brontoli, o bombo?
Che nuove mi porti?
E cadono l'ore
giù giù, con un lento
gocciare. Nel cuore
lontane risento
parole di morti...
Che brontoli, o bombo?
Che avviene nel mondo?
Silenzio infinito.
Ma insiste profondo,
solingo smarrito,
quel lugubre rombo.
Un murmure, un rombo...
Son solo: ** la testa
confusa di tetri
pensieri. Mi desta
quel murmure ai vetri.
Che brontoli, o bombo?
Che nuove mi porti?
E cadono l'ore
giù giù, con un lento
gocciare. Nel cuore
lontane risento
parole di morti...
Che brontoli, o bombo?
Che avviene nel mondo?
Silenzio infinito.
Ma insiste profondo,
solingo smarrito,
quel lugubre rombo.
La cosa più superba è la Notte,
quando cadono gli ultimi spaventi
e l'anima si getta all'avventura.
Lui tace nel tuo grembo
come riassorbito dal sangue,
che finalmente si colora di Dio
e tu preghi che taccia per sempre,
per non sentirlo come rigoglio fisso
fin dentro le pareti.

— The End —